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Lagorai immaginato. [Edizione italiana e inglese]

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Codice: 28455748742348

Editore: Damiani

Categoria: Fotografia

Ean13: 9788889431047

Rovereto, Biblioteca Civica, 27 novembre - 10 dicembre 2004. A cura di Crepet P. e Quintavalle A. C. Testo Italiano e Inglese. Bologna, 2004; br., pp. 128, ill. b/n e col., tavv., cm 24x28. (Greenline).

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Vi devo innanzitutto raccontare come è iniziata questa storia. Eravamo, Nino ed io, ospiti di un'associazione d'industriali. La sala era bella, al primo piano di un grande palazzo in cima ad una collina, molto verde attorno, ma l'atmosfera era soporifera. Nino si dava un contegno professionale, io ci riuscivo molto meno. Non ci conoscevamo se non di nome, non c'eravamo mai visti. Sarà stata la noia, o più probabilmente una strana curiosità: quei sentimenti che nascono quando meno te l'aspetti e trapassano, sovvertendoli, distanze e formalismi. Ci siamo messi a chiacchierare, sfogliavo il catalogo del suo ultimo lavoro, mi affascinava l'idea che un grande fotografo avesse ancora voglia di giocare con i bambini, d'inventarsi qualcosa per loro. E non dite che ad una certa età si torna tutti infanti: Nino è un esploratore, lo si capisce subito, basta guardare il suo sguardo. Un uomo che non finisce mai di stupirsi.Avevamo iniziato parlandoci sottovoce per non disturbare il dibattito, poi, terminata la tavola rotonda, ci siamo messi a pensare ad una cosa da fare assieme, un progetto, come lo chiamava lui. Ovviamente non sapevamo bene cosa avremmo potuto escogitare, soltanto ci piaceva l'idea d'inventarci qualcosa assieme per i ragazzi. Entrambi curiosi di far crescere un confronto tra punti di vista ed esperienze diverse per poi donare un'idea.E' passato del tempo, ognuno di noi inghiottito dal proprio quotidiano, fino ad una nuova telefonata. Questa volta c'era l'occasione buona: quella che vedete in questo catalogo. Ci siamo rivisti un paio di volte, stessi occhi allegri, stessa ironia, ancora tagliatelle e vino rosso, poi la soddisfazione di condividere una passione, un'inclinazione al nuovo.La fotografia è stata importante nella mia esperienza professionale fin dall'inizio. E' stata uno dei più poderosi grimaldelli per rompere le sbarre dei manicomi, la sola opportunità per far urlare chi la voce gli è stata rapita. Franco Basaglia, con cui all'epoca lavoravo, aveva utilizzato la fotografia in un libro che fece scandalo, come le sue idee: "Morire di classe", testo suo, immagini di Berengo Gardin. Assieme a lui, altri fotografi si sono poi aggregati a questa denuncia collettiva: come Carla Cerati e Luciano D'Alessandro. E più tardi anche Raymond Depardon e Mary Ellen Mark. Assieme a loro organizzai una mostra a palazzo Braschi a Roma: "Inventario di una psichiatria". Da un anno Franco Basaglia era morto e la riforma della psichiatria faceva i primi difficili passi. La foto, nella nostra opera di guastatori dell'emarginazione del mondo della follia, era diventata poi un mezzo d'espressione non tanto di una patologia -ho sempre detestato l'estetica del dolore: modalità, a volte perfino raffinata, per esprimere la propria distanza dalla diversità dell'altro- quanto piuttosto per esprimere un punto di vista. Ricordo le istantanee di un gruppo di ex-degenti dell'ospedale psichiatrico di Genova, avevano infilato dei guanti sulle lance acuminate di una grande cancellata attraverso la quale si vedeva il mare: tante mani protese verso un'idea di libertà.Il lavoro che i ragazzi delle scuole della Val Sugana hanno fatto è importante per almeno due motivi. Il primo è che Nino ha insegnato loro non tanto a fotografare o a lavorare con le immagini, ma soprattutto a fare. Non so se ve ne siete accorti, ma non si fa più nulla: si pensa, si comunica, ci si mostra, ma non si usano più le mani. Ovvero i ragazzi oggi rischiano di perdere la migliore e più diretta occasione per accrescere la propria stima di se stessi, cioè il fare, il dimostrare che si è capaci di creare, manipolare, inventare e realizzare qualcosa di stupefacente. Qualcosa che verrà ricordato, che parla del proprio autore, del proprio meraviglioso artigiano. Ripristinare la manualità in epoca di estrema virtualità significa restituire un know-how emotivo ad una generazione che rischia una sorta di "autismo di ritorno". La manualità infatti insegna ai ragazzi a riappropriarsi dell'uso dei propri sensi, ben oltre quello squisitamente tattile: l'uso delle mani porta infatti a odori, gusto, sapori, visioni impreviste, suoni raramente o mai ascoltati.Il secondo motivo risiede nell'aver trasformato il luogo dell'istruzione, la scuola, nel topos dell'educazione, ovvero della crescita. E come si può mai crescere se non si può esprimere la propria creatività? La scuola diventa finalmente una fucina d'idee e di provocazioni, luogo contaminato e contaminante. Dalla scuola nasce e prende corpo un punto di vista non immaginato del fuori, del mondo fuori: questa contaminazione di gioia arriverà fin dentro le case di quei ragazzi e produrrà sorrisi e stupori, ovvero emozioni vere, non quelle per un sei meno meno in matematica. E non saranno solo i ragazzi e i loro familiari a giovarsi di questa esperienza, ma anche gli educatori che non si sentiranno più come prima, ma avranno capito di essere insegnanti più ricchi e competenti.Ma al di là di tutto è l'esempio di Nino che è rivoluzionario. Con i suoi quasi ottant'anni e la mente brillante come nemmeno da ragazzi ci si può permettere di avere. L'esempio -unico principio educante- che nella vita ad una cosa sola non si può rinunciare: la passione. Ecco cosa ha reso possibile questo lavoro. L'idea che la vita sia un'infinita occasione per pensare al nuovo, per non cedere al conformismo, alla noia, alla ripetitività. Non credo ci sia nulla di più educativo di un'esperienza che ti permette di poter credere a tutto ciò, facendo, costruendo qualcosa che poi possa restare lì a dimostrare che le utopie e i sogni non svaniscono all'alb

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